unus sed K

Come tutte le nascite, anche quella di Kisciotte giunge dopo travagli decisionali.
La scelta di un nickname, per un soggetto che prende in maniera maledettamente seria le pirlate, è una sfida immane. Per dare un nome a un figlio, non investirei la stessa profusione di energie, tempo e ripensamenti.

Cercavo uno pseudonimo, per poter avvoltolare la mia modesta e traballante anagrafica nel mantello di una invenzione di magia. Insomma una ricerca d’esaltazione divertita.
Mi volevo fiero non serioso, follemente lucido, cavalleresco non mieloso, condottiero ma senza un’armata, pronto a battermi per le mie idee, senza la sciagura di trascinare altri a morir con me.

Iniziai a rovistare nei ricordi: ritrovando subito gli eroi di Salgari: Sandokan, il Corsaro Nero, Mompracem. Troppo fulgidi per me, uomini tagliati con l’accetta, tutti d’un pezzo, destinati a comandare le ciurme, sollevare sommosse, verso immancabili vittorie.

Allora valutai il nostrano Brancaleone da Norcia, squisitamente sanguigno, folle e strampalato, eppur così profondo e limpido nello spirito; ma pur sempre con il chiodo fisso di esser duce a un’armata.

Pensai anche a Dago, felice, tardiva scoperta della cupa figura del giannizzero nero.
Una vita drammatica, segnata da vicende scultoree, un animo buio e disperatamente solitario, un cuore selvatico sprezzante delle lusinghe del comando e del potere. Allettante davvero, indomabile dalle avversità, ma in fondo troppo accanito nel perseguire un fine cieco e irrinunciabile: la vendetta.
E anche troppo vincente, un seduttore di donne in ogni dove, nelle corti reali come nelle cucine, della Cristianità come dell’Islam. D’accordo sognare, ma io tombeur de femmes sarei da neurodeliri.

Insomma selezionai, scartai, soppesai e scartai di nuovo, a uno a uno.
Troppo serioso… no… troppo vincente… nemmeno… troppo condottiero… non va bene… troppo una figa in ogni dove… nemmeno.

Finché non ascoltai la voce di uno scrittore a me molto caro, Erri De Luca. Lo ascoltai parlare del cavaliere dalla triste figura, el ingenioso hidalgo Don Chisciotte della Mancha.
Ne parlava - la qual cosa mi piacque assai - liberandolo del “don”, poiché era la sua natura umana a decretarne la grandezza. Senza alcun titolo nobiliare, era semplicemente Chisciotte.
Mi piacque subito l’idea di una nobiltà d’animo che rende superfluo qualsiasi frastuono di din don dan onorifico.
Chisciotte non ha sete di potere, non ha ambizione di far proseliti, non conduce armate, ma intere armate attacca solitario, lancia in resta, senza far calcoli di vittoria. Basta a se stesso, poiché la fantasia basta a lui. Reca nel cuore palpiti d’impossibile, sillabando Dulcinea per dar voce al sogno.
Soprattutto, egli brilla della propria ombra, perché mai vincerà e men che mai sarà vinto.
Non è stata ancora forgiata la logica in grado di sconfiggerlo.
Invincibile dunque, senza seri né credibili propositi di vittoria.
Obliare la ragione nella lettura, in fondo, è un po' un mio sogno.

Ecco, l’hidalgo dalla triste figura, narrato con quell’accento di fatalità partenopea, mi ha affascinato, prevalendo sugli altri: per un bacile come elmo, per una lancia in resta, per il solo piacere di caricare il nemico, sempre e comunque, qualunque sia la sorte e senza calcoli di sorta.
Chisciotte, che ama un sogno di donna, come è ogni donna in sogno, a occhi chiusi.
Tutto il resto è imperfezione, è approssimazione, un accontentarsi a occhi aperti.
Tutto il resto è mancha, polvere alle spalle.

Invincibile è Chisciotte che non ne ha mai vinta né azzeccata una.
Beh, perché per noi di stasera, per noi di passaggio
invincibili non sono quelli che stanno sempre sul gradino più alto del podio,
posto scomodo da conservare a lungo.
Alla fine prima o poi qualcuno ti butta giù da là sopra.
Ma invincibili sono quelli che non si lasciano abbattere, scoraggiare,
ricacciare indietro da nessuna sconfitta
e dopo ogni batosta sono pronti a risorgere e a battersi di nuovo.
Chisciotte che si tira su dai colpi e dalla polvere
pronto alla prossima avventura
è invincibile.
[Erri De Luca]


Rimarrebbe da spiegare la K.
Io potrei dire che la K, senza alcun significato socio-politico, mi ha sempre affascinato per la sua estetica grafica, per un piacere nel leggerla e nello scriverla che io non saprei proprio spiegare.
Forse, potrebbe spiegarla un bambino cresciuto sul ponte di un prao, aggrappato forte a uno stivale della Tigre, per non finire fuoribordo nei mari della Malesia.
Non importa se si trovava su un divano in soggiorno, rapito dentro la tv.
La K è un piccolo omaggio, un’estetica d’ammirazione.
Kisciotte è sempre pronto a farsi tigrotto, come sempre esiste Mompracem.
Basta saperla disegnare sulla mappa. A occhi chiusi.

Ecco infine l’unica possibile interpretazione “politica” di questa K.

Kisciotte