martedì 9 agosto 2011

Coccodè? Quack! Quack!

Nel tanto semplice quanto prezioso “Libro Arancione”, il saggio orientale Osho spiega significato e valore del concetto di “consapevolezza”, in contrapposizione a quello di “automatismo”.

Se ci riflettete, vi renderete conto che molti concetti fondamentali dell'esistenza vengono, spesso in buona coscienza, ritenuti davvero importanti, così basilari, così radicali, che sopra le radici del pensiero logico si gettano frettolosamente palate di terra e concime, dettate dalla frettolosa approssimazione, colate di superficialità a presa rapida sopra le quali elevare i nostri edifici di distratto pressappochismo.

E così quei concetti sicuramente fondamentali, irrinunciabili… restano là sotto, preservati nell’oscurità. Magari qualcuno ci ragionò sopra agli albori del Tempo, magari ne fece una sensata sintesi dopo un’attenta analisi, magari no.
In ogni caso, abbandonati al loro destino da generazioni di sospensioni di consapevole riflessione, ecco che, comunque siano stati creati, questi atti automatici del pensiero, questi slogan dell’intelletto, si trasformano in rampicanti infestanti dello spirito, cani selvatici che attaccano in branco il pacioso buon senso.

Quello che un tempo era un affettuoso gattino, col quale giocare e rotolarsi nel lettone, ora si è inselvatichito, è diventato una minaccia che ci tende l’agguato, e dalla penombra dell’insensato aggredisce la nostra psiche.

Insomma, compiamo gesti, diciamo parole, pensiamo categorie, così... per riflesso mentale condizionato, senza più preoccuparci di confermarle (o smentirle) di tanto in tanto con una critica consapevole.

Perché ormai diamo per acquisito, per assodato, per ovvio, per automatico, ciò che forse ovvio e automatico forse mai è stato; forse lo fu e ora non più.

Cito a semplice esempio di una lunga lista (che magari voi creerete), le liturgie, le cerimonie ormai svuotate di ogni contenuto e significato originari, come farsi il segno della croce con la stessa consapevolezza con la quale si potrebbe improvvisare una figura della Macarena, e magari scambiare il segno di pace con quello alla tua sinistra che non sai chi fosse, non sai chi sia, e non te ne può fottere di meno di dove andrà a fare in culo quando pure il prete inviterà tutti ad andare in pace (che significa, per esteso, "andate fuori dalle palle senza far troppo casino e lasciate in pace, me e il kristo in croce").

Come tanti yogi saccenti, siamo tutti pronti a dire che è più che importante, addirittura ovvio, commovente e irrinunciabile, essere consapevoli di ogni nostro agire, parlare e pensare quotidiano.
Nessuno direbbe di se stesso di essere così stupido da agire con distratta superficialità.
Non sia mai! Vade retro indice puntato sulla mia idiozia!

Ognuno è convinto in perfetta buona fede (e in questo è il dramma) di avere per cuscino sotto il culo, un impeccabile, fragrante fiore di loto dai petali che emanano serena consapevolezza.

In realtà, continuiamo a fregarcene allegramente di stare in ascolto di qualcosa che non sia la nostra introversa (e mai controversa) coscienza di noi, ovvero la pienezza di sé stessi, insomma la vanitosa ruota del pavone Narciso, nel serraglio dei giardini prensili di “la mia modestia è più figa della tua”.

Eccone un solare esempio, fra i tantissimi che sbocciano nel campo delle frasi fatte e preconfezionate che escono dalla bocca di individui spesso giovani (d’anagrafe) e sempre certi, senza dubbio alcuno, di essere “in consapevole ascolto”.
Quando si renderanno conto di essere strafarciti di geriatrici automatismi linguistici e quindi mentali (e quindi linguistici)? Risposta: mai.

Capita a Kisciotte di non aver tempo per curare la propria immagine esteriore, troppo indaffarato nel coltivare le essenze fiorite dei giardini del proprio reame interiore.

Capita che una gentile pulzella, il cui intelletto si è forgiato nelle università catodica dell’isola dei famosi, lo apostrofi con tagliente ottusità “Scusa se te lo dico, ma sei vestito da schifo”.

Ordunque, caro clone defilippiano, che di disperato riesco a immaginare soltanto il poveretto che ti avrà in sorte come casalinga. Sorvoliamo con ali di gipeto la tua competenza in fatto di estetica, non scomodiamo i canoni vitruviani, le architettura palladiane, la bellezza dei primi piani plantari del Caravaggio, il fascino d’approssimazione voluta della mia persona.

Sopra tutto questo, come un barbagianni in volo felpato cerco di fendere l’aria senza far rumore per non infierire sull’emicrania che la parola “gipeto” ha scatenato nell’estetica dell’arredo minimalista delle immacolate pareti del tuo scatolame cranico.

Con ali di condor mi libro sopra l’inconsapevole arroganza della tua frase fottutamente, sguaiatamente, automaticamente, neurolinguisticamente programmata e corretta.

Dopo di che conto fino a settantotto in aramaico antico e mi incazzo.
E il condor comincia a prender forma di avvoltoio e mi metto a volteggiare.

Fammi capire!
Non solo mi offendi (o almeno questa è la tua pretesa) dandomi del malvestito, ma hai anche l’arroganza e la vigliaccheria di assolverti da sola, autoscusandoti della tua castroneria psicoverbale?!?!

Da quassù, con sguardo d’aquila, mi par di scorgere che già hai blaterato un’astrusità; ora almeno evita di nascondere l’offesa sotto il mantello della finta educazione, del “chiedo venia, mi consenta, costruisco offese e le disfo da me medesima” dandoti da sola, così facendo, dell’educata personcina, che si scusa per non urtare la suscettibilità del povero barbone che ha di fronte.

Magari Barbon Kisciotte deve anche dirti grazie per il fatto che la tua sensibilità ti porta a scusarti per non mettere in imbarazzo il suo look demodè?!

Cribbio quanto mi rendi grifone! No, no, un attimo... ferma lì! Almeno abbi le palle di sostenere e argomentare la tua frase. Non che tiri il sasso e poi ritrai la mano.

Un attimo solo ed ecco, mi faccio albatros e mi libro sopra le nubi alte del compatimento, donde mi preparo a fiondarmi sotto, bucando i nembi, come falco pellegrino.

Ma le altitudini m’ammansiscono, tutto si ferma dietro uno sguardo dolce e compatente, e plano dolcemente, quasi cigneggiando, mi appollaio come un gufo Anacleto di merliniana memoria sul ramo secco del mio fegato straziato.
Dalle palpebre pesanti poso lo sguardo sapiente sul generoso decolleté dell’Esteta laureatasi alla FigaFashion Academy.

Per ora le tue collinose poppe hanno disperso i cumulinembi (altra emicrania, scusa!) dell’ira.

Giorno verrà che al tuo coccodè contrapporrò il mio quack! quack!
Il vecchio gufo cederà il cielo a uno stormo d’anatre migranti a V come Vendetta e a S come Scagazzanti.

E sempre quel giorno la successiva metamorfosi ornitologica spiccherà il volo dalle mutande.

“Scusa se te lo dico, ma…”

Scuso un kazzo e vaffanculo!

K.

3 commenti:

  1. Un po' come il denaro: da mezzo per contrastare il caos del baratto, a mezzo da baratto per il caos.
    O come quando capita di dare del frocio, per scherzo, perchè si è incazzati, o per qualsiasi altra ragione, ma comunque in chiave di insulto, sebbene ci si dichiari non omofobici.
    O come quando parli male dei morti e tutti ti danno contro, perchè "Non si parla male delle disgrazie".
    Fanculo, ormai soto tutti tre metri sotto terra, dubito gli importi.
    Siamo fottute bambole parlanti: tiri il cordoncino ed esce la frase pre-registrata.

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  2. "La ringraziamo per il commento e le auguriamo una buona giornata!"

    che cavolo dici? sono le nove e mezzo di sera! il signor La Carta magari va a dormire tra un po'...

    "La ringraziamo per il commento e le auguriamo una buona giornata!"

    vabbeh, ci rinuncio, buonanot... ehm... buona giornata a tutti.

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  3. Awesome!
    Non so cosa voglia dire, però il suono mi piaceva.

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